“Non si può dire più niente”

Come giornali e opinionisti di destra hanno inventato la fantomatica dittatura della “cancel culture”: casi di censura inventati o ingigantiti per demonizzare chi mette in discussione il potere del linguaggio.

Un mio articolo per il quattordicesimo numero di Jacobin Italia.

Ignorare Salvini sui social non è la soluzione

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“In un giorno così triste, una notizia positiva. La nave Aquarius andrà a Malta… Come promesso, non in Italia”.

Nelle ore che vedono un intero Paese piangere i morti di Genova il ministro dell’Interno coglie ancora una volta l’occasione per blandire via Facebook e Twitter i suoi sostenitori, recando loro in dono “una notizia positiva” e cioè che un centinaio di esseri umani salvati in mezzo al mare non verranno accolti in Italia ma altrove.

“Non facciamogli da megafono”, “ignoriamolo”, “non diamogli visibilità”. È la replica di quanti vorrebbero ignorare messaggi odiosi come quello già citato.

Per quanto sia condivisibile l’insofferenza legata all’opprimente sovraesposizione mediatica di Matteo Salvini – non c’è tg o giornale che salti l’appuntamento con la sua immancabile dichiarazione “shock” quotidiana – come non considerare che stiamo parlando di un leader politico che alla carica di ministro dell’Interno affianca quella di vicepresidente del Consiglio e può vantare 834mila follower su Twitter e quasi tre milioni di “mi piace” su Facebook?

I social sono uno dei campi di battaglia dello scontro politico.

Smentire le fake news xenofobe che condivide, esprimere solidarietà a chi viene linciato su Facebook dalla pagina ufficiale del suo partito e censurare senza fare sconti i suoi metodi da bullo, sono azioni che hanno ancora senso.

“Ma non basta un tweet, bisogna scendere in piazza”.

È vero, l’attivismo virtuale non è sufficiente. Opporsi ai discorsi d’odio sul posto di lavoro, nella scuola e con allarmante frequenza perfino all’interno del proprio nucleo familiare resta un dovere imprescindibile, ma non così facile come potrebbe sembrare.

Tuttavia una ritirata sull’Aventino dei social network potrebbe rivelarsi miope e controproducente. Se non commentiamo i post di Salvini non c’è l’oblio ad attenderli, ma una vastissima platea di persone ossessionate da migranti, ong, Soros, burocrati europei… Senza dimenticare che nel caso del leader leghista – insediatosi nel frattempo ai vertici del Viminale e dell’attuale esecutivo – i media non hanno più bisogno di qualche risibile polemica nata sulla Rete per invitarlo e vezzeggiarlo, come peraltro accadeva già in passato.

Non si indebolisce Salvini fingendo che non esista su Twitter e Facebook,  lo si fa contrastandolo su tutti i fronti, compreso quello dei social.

Dove c’è Barilla, c’è omofobia

Dove c'è Barilla, c'è omofobia

Guido Barilla: “Non metterei in una nostra pubblicità una famiglia gay perché noi siamo per la famiglia tradizionale. Se i gay non sono d’accordo, possono sempre mangiare la pasta di un’altra marca. Tutti sono liberi di fare ciò che vogliono purché non infastidiscano gli altri”.

No, non è un reato tifare per la “famiglia tradizionale” (meglio rassicurare i devoti laici e religiosi che temono la persecuzione per legge delle loro idee omofobe). Ma neppure lo è scegliere di censurare, con la sola arma concessa ai consumatori (il portafogli), parole dal sapore retrogrado e bigotto come quelle pronunciate dal presidente della multinazionale Barilla.

Sul web alcuni criticano la sostanziale inutilità di un boicottaggio dei prodotti Barilla, altri rivendicano la libertà di un’azienda nello scegliere il proprio target di riferimento. Tutte posizioni legittime che tuttavia non scalfiscono le ragioni di chi, dopo avere ascoltato quelle parole, potrebbe altrettanto legittimamente trovarsi a disagio nell’acquistare e pertanto foraggiare una vision quantomeno discutibile.

Insomma, si può sempre mangiare la pasta di un’altra marca e non è necessario essere gay per farlo; è sufficiente non riconoscersi nell’imbarazzante angustia mentale ostentata dal signor Barilla.