Migliaia di lavoratori migranti morti, violazioni dei diritti umani e ingenti interessi economici.
Conversazione con il giornalista sportivo Valerio Moggia, autore de “La coppa del morto. Storia di un Mondiale che non dovrebbe esistere”.
Migliaia di lavoratori migranti morti, violazioni dei diritti umani e ingenti interessi economici.
Conversazione con il giornalista sportivo Valerio Moggia, autore de “La coppa del morto. Storia di un Mondiale che non dovrebbe esistere”.
Un mio articolo per L’Espresso.
“Atto disumano”, dichiara il Presidente della Repubblica Mattarella. Il ministro dell’Interno Minniti assicura che i responsabili saranno “perseguiti secondo la legge e definitivamente esclusi dagli stadi”. “Siamo tutti Anna Frank”, scrive il direttore de La Repubblica.
Lo sgomento e l’indignazione per gli adesivi raffiguranti il volto di Anna Frank con la maglia della Roma, attaccati da alcuni tifosi durante il match Lazio-Cagliari non accennano a diminuire. Il presidente della società Lotito si è precipitato in Sinagoga per dissociarsi, promettendo di organizzare ogni anno viaggi della memoria ad Auschwitz per 200 tifosi della Lazio.
La Federcalcio ha aperto un’inchiesta, la Procura di Roma un fascicolo per istigazione all’odio razziale. È stata inoltre annunciata dalla Federcalcio, d’intesa con l’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), la decisione di osservare un minuto di silenzio e leggere un brano del Diario di Anna Frank. Copie del Diario e di Se questo è un uomo di Primo Levi saranno donate ai bambini che accompagnano i calciatori sul campo.
Lo sdegno, seppur tardivo (questi adesivi circolano fuori degli stadi almeno dal 2013), avrebbe una qualche utilità se non si limitasse alla solita retorica sui tifosi di calcio brutti, sporchi e cattivi. Il problema va ben oltre la piaga incancrenita di tifoserie spesso legate a doppio filo con ambienti che si rifanno dichiaratamente all’ideologia fascista.
L’episodio non darà vita a nessuna riflessione seria e approfondita sulla questione: i tifosi di calcio, anche quelli di sinistra, si arroccheranno sulla difensiva davanti all’ondata di luoghi comuni scagliati da persone che hanno visto la curva soltanto in televisione. Non occorre essere cresciuti allo stadio per poter criticare episodi del genere, sarebbe tuttavia opportuno accantonare i pregiudizi e constatare l’ovvio: antisemitismo e razzismo non sono un’esclusiva degli stadi e dei tifosi di calcio.
Si può peraltro affermare il contrario: curve e tifoserie rappresentano lo specchio impietoso di una società dove molti, anche chi non abbia mai frequentato lo stadio, considerano elementi quasi naturali del paesaggio urbano scritte omofobe, razziste e inneggianti all’olocausto.
Stilare classifiche, decidendo che per l’adesivo con Anna Frank ci si indigna ma che “Anna non l’ha fatta Frank” sul muro di periferia è solo opera di qualche “idiota”, rende soltanto più accettabili l’odio e il razzismo cui veniamo sottoposti ogni giorno.
Quando si parla di Mario Balotelli gran parte dei “60 milioni di allenatori” che popolano il nostro Paese ama improvvisarsi anche esperta di sociologia e storia, rassicurandoci sull’inconsistenza delle accuse di razzismo che il calciatore italiano di origine ghanese sovente denuncia. I giudizi, più o meno irriverenti, sulle evidenti mediocri prestazioni agonistiche offerte dal nostro durante i mondiali di calcio in Brasile, si traducono spesso in insulti che di sportivo non hanno più nulla. Per quanto si provi, magari anche in buona fede, a scindere la comprensibile antipatia verso un giovane calciatore ricco e arrogante dal colore della sua pelle, la veemenza delle aggressioni rivolte alla sua persona non lascia alcun dubbio: a Mario Balotelli vengono negate anche le attenuanti generiche concesse a tante altre “teste calde” dello sport nazionale. Ad altri atleti insultano madri, mogli e sorelle ma per venire bersagliati da banane e buu che dovrebbero richiamare (almeno nella mente bacata di chi vi ricorre) i suoni emessi dalle scimmie ci vuole qualcosa di più dell’antipatia: serve una pelle scura. Perché in fondo il problema è tutto qui: agli occhi di molti suoi connazionali Mario è e resta un corpo estraneo, uno straniero che solo a 18 anni ha ottenuto per vie burocratiche la cittadinanza. Ma come sottolineato dallo stesso Balotelli in uno dei (pochi) passaggi lucidi del suo recente sfogo consegnato ai social network, il calciatore nato a Palermo e cresciuto nel bresciano ha scelto di vestire la maglia della nazionale italiana. Una dichiarazione che avrebbe anche solleticato il patriottismo dei suoi più beceri contestatori, se a pronunciarla non fosse stato un giovane uomo dalla pelle “nero carbone” (parole utilizzate da un giornalista del TgLa7). Un ventitreenne strafottente e allo stesso tempo assai ingenuo quando afferma che i “fratelli” neri non l’avrebbero “scaricato” alla stessa maniera degli italiani. Balotelli si sente ed è italiano a tutti gli effetti. Purtroppo, complice la giovane età, dà anche l’impressione di essere privo – come tanti suoi coetanei – della voglia di appropriarsi degli strumenti culturali per gestire con maggiore avvedutezza il delicato ruolo di personaggio pubblico. Peraltro, nessuno si aspetta da lui la consapevolezza politica di un Muhammad Ali: sarebbe già un grande risultato se imparasse a incanalare più utilmente la rabbia che a volte lo domina. Tuttavia, al di là delle sue ricorrenti intemperanze, il ragazzo ha spesso pagato e continua a pagare un prezzo molto più alto delle sue eventuali “colpe”.