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Esportazioni verso regimi autoritari e nazioni in guerra, femminicidi, possibilità di detenere un vero arsenale con una semplice licenza per uso sportivo, dati opachi e norme da rivedere… Conversazione con Giorgio Beretta, analista del commercio internazionale e nazionale di sistemi militari e di armi comuni.
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Il tweet di Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), è linguisticamente insidioso. I siriani al confine macedone non sono, vocabolario alla mano, migranti bensì rifugiati o a voler esser pignoli profughi e potenziali richiedenti asilo. È tuttavia comprensibile che agli occhi di molti questa sua distinzione abbia una forte matrice escludente, il cui principale effetto è quello di dividere le persone che premono alle porte della Fortezza Europa in meritevoli e meno meritevoli. I rifugiati possono restare – sorvoliamo, per motivi di spazio, sul percorso accidentato che li attenderà una volta “accolti” –, ma i migranti devono andarsene. In quest’ultimo caso i governi europei, supportati da un’assordante grancassa mediatica, ricorrono spesso all’etichetta assolutoria (per chi l’attribuisce) del “migrante economico”. Definizione ambigua assai cara alla classe politica di un intero continente perennemente restio a fare i conti sia col proprio passato, sia col presente. Mentre l’Europa utilizza il termine migrante per rispedire a casa chi fugge da fame e povertà l’emittente del Qatar al Jazeera ha recentemente deciso di non utilizzarlo più in quanto “disumanizzante”. Il dibattito è dunque vivo e sarebbe da ingenui negare le implicazioni a volte contraddittorie che può generare. Chi utilizza il termine “rifugiati” per i siriani che fuggono dalle violenze di Assad e dell’Isis è complice della Fortezza Europa che ne accoglie alcuni “buoni” a scapito degli altri “meno buoni”? È altrettanto evidente che l’etichetta prescelta esclude de facto chi va alla ricerca di un futuro migliore e ha la “sfortuna” di non lasciarsi dietro uno scenario di guerra. Un dibattito sulle parole giuste, o almeno più accurate, quando si parla di migranti e rifugiati è necessario e non più rinviabile. Soprattutto in un paese come il nostro dove il pressapochismo di alcuni giornalisti può alimentare o, peggio ancora, incoraggiare i peggiori istinti xenofobi.
“Un libro necessario”. Lo si dice e scrive tanto spesso che, avendo tra le mani un’opera spiazzante come Roma negata diventa impresa ardua scalfire il comprensibile scetticismo del lettore più smaliziato. Bastano tuttavia poche pagine per comprendere l’urgenza che anima il progetto a quattro mani realizzato dal fotogiornalista Rino Bianchi e dalla scrittrice Igiaba Scego. Per l’opinione pubblica italiana nazioni quali Eritrea, Libia, Etiopia e Somalia oggi rappresentano soltanto un problema di ordine pubblico (così almeno il fenomeno migratorio viene inquadrato e gestito dalle nostre autorità). La scrittura di Scego va oltre la cronaca “emergenziale” e ricostruisce, attraverso la descrizione di luoghi poco noti di Roma, un legame tra il nostro Paese e quella parte d’Africa che prima abbiamo brutalmente sfruttato e poi abbandonato. Una storia rimossa e perfino stravolta dalla convinzione, radicata soprattutto (ma non solo) fra i nostri connazionali più anziani, che avremmo “fatto tante cose buone per quei popoli”. L’autrice italosomala, con mano leggera ma ferma, smonta il mito degli “italiani brava gente” muovendosi con disinvoltura tra il presente (le centinaia di migranti eritrei morti al largo di Lampedusa lo scorso 3 ottobre e già dimenticati) e un passato che a volte vive quasi inavvertitamente attraverso le insegne di un vecchio cinema di Tor Pignattara (il Cinema Impero raffigurato nella copertina del libro). Edifici, monumenti, vie e piazze. I “percorsi postcoloniali” sono numerosi e le immagini di Rino Bianchi non si limitano a mostrarceli, giustapponendo i volti dei figli dell’Africa derubata (anche della memoria). I protagonisti delle fotografie – rifugiati politici, italiani di seconda generazione nati o cresciuti qui – con la fierezza dei loro sguardi ci offrono una prospettiva inedita ed emozionante su quella madre distratta che Roma è per molti figli del Corno d’Africa. Il 9 maggio del 1936 Mussolini annunciò la fine della guerra in Etiopia e proclamò la nascita dell’Impero. Peccato che la ricorrenza sia stata totalmente ignorata: sarebbe invece opportuno che le gesta del colonialismo italiano venissero puntualmente ricordate, senza omettere tutte le nefandezze perpetrate. Orrori così poco conosciuti da aver consentito a nostalgici del ventennio di erigere pochi anni fa, alle porte di Roma e con soldi pubblici, un sacrario al gerarca fascista e criminale di guerra Rodolfo Graziani. A questo riguardo Roma negata, oltre a essere un atto d’amore verso una città più meticcia di quanto immaginino i suoi stessi abitanti, è un invito vivo e pulsante a non dimenticare. Un valore – la memoria – da coltivare quotidianamente, magari solo camminando, non distrattamente, per le strade della propria città.