Uomini. Mettersi in discussione tra dubbi e contraddizioni.

Da due anni partecipo agli incontri e alle iniziative promosse dal gruppo romano di Maschile Plurale, attività stimolante e formativa che non mi ha evitato, anche in tempi recenti, di essere definito persona “che ama spacciarsi per il salvatore delle donne”.

Ribattere, puntualizzare e inoltrarsi nelle pieghe di un rapporto finito male avrebbe poco senso: un giudizio così netto è inappellabile.

Vorrei tuttavia partire da questo episodio che mi vede protagonista mio malgrado per condividere alcune riflessioni più ampie.

“Un gruppo di condivisione al maschile legato alle tematiche del ripensare la mascolinità fuori dalle maglie del patriarcato tradizionale”.

Gli incontri di Maschile in gioco, il gruppo romano di Maschile Plurale, sono preziosi momenti di condivisione e apertura. Si tratta di occasioni rare e assai diverse dalle “chiacchiere da spogliatoio” cui molti di noi sono abituati. Sessualità, affettività, fantasie, paure… Tutti argomenti che gli uomini difficilmente affrontano con altri uomini, figuriamoci con perfetti sconosciuti.

È innegabile che un’attività così inconsueta possa farti sentire “diverso”, non però necessariamente “superiore” o “migliore”.

Più di una volta infatti durante i nostri incontri ho sentito affermare che non siamo “quelli buoni”, perché se c’è qualcosa di cui le donne non hanno proprio bisogno è di eroi che le salvino.

Ma si può prendere posizione (anche pubblicamente) contro la violenza sulle donne, partecipare a convegni e manifestazioni sul tema ed essere al tempo stesso un uomo che nella propria vita abbia ferito emotivamente altre persone?

Non ho una risposta, ma sarebbe utile avviare un dibattito onesto su quanto ingarbugliate e dolorose possano essere le relazioni tra uomini e donne.

Un confronto necessario per tracciare, insieme, una qualche linea di demarcazione tra la violenza (fisica o psicologica, non fa differenza) e la sofferenza che ci viene inflitta da chi riteniamo abbia tradito la nostra fiducia o ci abbia in qualche modo feriti.

Postilla. Non ho preso parte alle attività di Maschile Plurale per ottenere il “patentino di uomo perfetto”, convinto come sono che noi uomini dovremmo tutti metterci in discussione, soprattutto quelli che – come me – si sentano ancora ingabbiati nelle maglie del patriarcato.

#IoStoConAsia

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“Se l’è andata a cercare”, “avrebbe dovuto parlare prima”, “lo fa per un po’ di visibilità”, “avrebbe potuto dire di no”.

Nel caso del 22enne Jimmy Bennett, attore statunitense che Asia Argento avrebbe molestato cinque anni fa, i benpensanti di casa nostra evitano accuratamente di riutilizzare accuse infamanti. I documenti ottenuti in via anonima dal New York Times ed una foto mostrata dal sito scandalistico TMZ sono Vangelo. Approccio diametralmente opposto a quello adottato ai tempi delle accuse mosse dall’attrice e regista romana contro Harvey Weinstein.

Sul potentissimo produttore di Hollywood molti giornalisti e politici – soprattutto italiani e va rimarcato – hanno subito parlato di “gogna” e di “caccia alle streghe”, nonostante la mole di prove a sostegno delle denunce presentate da molte altre donne. Nulla di sorprendente in un Paese come il nostro dove fino al 1996 lo stupro era un reato contro la moralità pubblica e il buon costume.

In breve, alle donne non si crede.

Famose, sconosciute, sobrie, ubriache, single, sposate, con figli o senza. Non fa differenza, tra i commenti alle storie di violenze subìte – da quelle psicologiche fino allo stupro, passando per lo stalking e le molestie di ogni genere – alla fine ci sarà sempre un “ma” e non mancheranno ignobili considerazioni (“se non si fosse vestita in quel modo”, “se fosse rimasta a casa”…).

È vero, Asia Argento non è la “vittima perfetta”.

Ma quello della vittima senza macchia, l’unica davvero meritevole della nostra solidarietà, è un concetto estremamente pericoloso e fuorviante da rigettare con forza.

In queste ore Sky, dopo averla voluta e scelta come giudice in uno dei suoi programmi di punta e senza che vi sia alcuna denuncia o indagine a suo carico, si appresta a scaricarla per placare lo sdegno ipocrita che ha inondato negli ultimi giorni i social.

Asia si è esposta con coraggio, fino a diventare suo malgrado uno dei volti del movimento globale #MeToo contro le violenze sulle donne. Oggi corre il rischio di pagarne ancora una volta il prezzo.

A lei, in queste giornate durissime, va tutta la mia solidarietà.

Ignorare Salvini sui social non è la soluzione

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“In un giorno così triste, una notizia positiva. La nave Aquarius andrà a Malta… Come promesso, non in Italia”.

Nelle ore che vedono un intero Paese piangere i morti di Genova il ministro dell’Interno coglie ancora una volta l’occasione per blandire via Facebook e Twitter i suoi sostenitori, recando loro in dono “una notizia positiva” e cioè che un centinaio di esseri umani salvati in mezzo al mare non verranno accolti in Italia ma altrove.

“Non facciamogli da megafono”, “ignoriamolo”, “non diamogli visibilità”. È la replica di quanti vorrebbero ignorare messaggi odiosi come quello già citato.

Per quanto sia condivisibile l’insofferenza legata all’opprimente sovraesposizione mediatica di Matteo Salvini – non c’è tg o giornale che salti l’appuntamento con la sua immancabile dichiarazione “shock” quotidiana – come non considerare che stiamo parlando di un leader politico che alla carica di ministro dell’Interno affianca quella di vicepresidente del Consiglio e può vantare 834mila follower su Twitter e quasi tre milioni di “mi piace” su Facebook?

I social sono uno dei campi di battaglia dello scontro politico.

Smentire le fake news xenofobe che condivide, esprimere solidarietà a chi viene linciato su Facebook dalla pagina ufficiale del suo partito e censurare senza fare sconti i suoi metodi da bullo, sono azioni che hanno ancora senso.

“Ma non basta un tweet, bisogna scendere in piazza”.

È vero, l’attivismo virtuale non è sufficiente. Opporsi ai discorsi d’odio sul posto di lavoro, nella scuola e con allarmante frequenza perfino all’interno del proprio nucleo familiare resta un dovere imprescindibile, ma non così facile come potrebbe sembrare.

Tuttavia una ritirata sull’Aventino dei social network potrebbe rivelarsi miope e controproducente. Se non commentiamo i post di Salvini non c’è l’oblio ad attenderli, ma una vastissima platea di persone ossessionate da migranti, ong, Soros, burocrati europei… Senza dimenticare che nel caso del leader leghista – insediatosi nel frattempo ai vertici del Viminale e dell’attuale esecutivo – i media non hanno più bisogno di qualche risibile polemica nata sulla Rete per invitarlo e vezzeggiarlo, come peraltro accadeva già in passato.

Non si indebolisce Salvini fingendo che non esista su Twitter e Facebook,  lo si fa contrastandolo su tutti i fronti, compreso quello dei social.

Sarò il prossimo?

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Alla soglia dei quarant’anni, dopo una vita intera vissuta in Italia, è dura sentirsi quasi “persona non grata” nel Paese in cui si è nati e cresciuti.

Mi aggrappo con forza al “quasi” della frase precedente perché la sensazione di essere un corpo estraneo a malapena tollerato è assai sgradevole.

Attribuire la responsabilità di questo mio stato d’animo soltanto all’attuale ministro dell’Interno sarebbe scorretto, anche se non credo sia possibile ignorare il ruolo giocato dal leader della Lega, dominus dell’attuale esecutivo.

La martellante propaganda quotidiana del ministro Salvini sulla pelle di migranti e rom, accompagnata dall’incessante derisione di chiunque osi criticarlo a colpi di “bacioni” e faccine sorridenti, sta contribuendo a creare un clima d’odio.

In questi giorni mi tocca constatare come la sua continua retorica xenofoba stia erodendo in misura significativa l’innegabile privilegio che mi ha tenuto finora “al sicuro”: la cittadinanza italiana.

Padre italiano, madre somala. Episodi di razzismo ne ho subiti in vita mia, ma riconosco che il privilegio – perché di questo si tratta, dovremmo sempre tenerlo a mente – di un passaporto europeo mi ha difeso e tutelato in molte occasioni.

Lo ha fatto così bene e a lungo che per gran parte della mia vita mi sono dimenticato di essere nero.

Ripeto: episodi di intolleranza li ho vissuti anch’io. Mi hanno chiamato “negro”, per strada come all’università e a volte ho viaggiato più comodo di altri sui mezzi pubblici, grazie a qualche passeggero che temeva non si sa bene cosa.

Detto ciò, mi spiace per il capo del Viminale ma l’idea di essere picchiato o colpito dal pallino di un fucile ad aria compressa perché sono nero, quindi un bersaglio tutto sommato “accettabile” in quest’Italia incattivita, non mi entusiasma affatto.

“Da papà” premuroso quale ama descriversi, Matteo Salvini dice di avere a cuore la sicurezza degli italiani e delle italiane.

Oggi non mi sento più sicuro di qualche mese fa in un Paese dove il ministro dell’Interno nega l’evidenza, liquida l’inquietante successione di recenti aggressioni razziste come “invenzioni della sinistra” e utilizza i social per dettare l’agenda ai media, monopolizzando il dibattito pubblico e aizzando i suoi sostenitori contro il nemico del giorno: ieri i rom, oggi i venditori ambulanti e domani di nuovo i migranti e le ong.

Su una cosa sono tuttavia d’accordo con Salvini: “La pazienza degli italiani è finita”.

La mia lo è di certo.

“C’è il ricordo”

giulianiCome spiega bene Zerocalcare con i suoi disegni (e un pugno di parole) “c’è il ricordo“. Dopo molti anni c’è quello… E la rabbia, tanta, per un giovane uomo che oggi avrebbe compiuto 36 anni. In questa giornata il mio pensiero non va a chi ancora polemizza (“aveva un estintore!”), parlando a vanvera di cose che evidentemente non conosce. Oggi il mio pensiero e un ideale abbraccio vanno alla famiglia di Carlo Giuliani e in particolare a sua madre Adelaide, che ho avuto l’onore di incontrare dodici anni fa. Una donna speciale. Minuta, ma forte e determinata. Non ho sue notizie da molto tempo, spero sia in buona salute e che in questo giorno difficile venga circondata dall’affetto dei suoi cari e di chi ricorda con amore e rabbia Carlo. Un giovane uomo che oggi avrebbe compiuto 36 anni.

Carlo Giuliani (Roma, 14 marzo 1978 – Genova, 20 luglio 2001)

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