Un mio articolo per Rolling Stone Italia.

Un mio articolo per Rolling Stone Italia.
Le organizzazioni non governative che effettuano salvataggi nel Mediterraneo sono sotto attacco.
Conversazione con il giornalista Lorenzo D’Agostino sul ruolo di politica, media e magistratura.
Un mio articolo per Valigia Blu.
Il tweet di Carlotta Sami, portavoce per il Sud Europa dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), è linguisticamente insidioso. I siriani al confine macedone non sono, vocabolario alla mano, migranti bensì rifugiati o a voler esser pignoli profughi e potenziali richiedenti asilo. È tuttavia comprensibile che agli occhi di molti questa sua distinzione abbia una forte matrice escludente, il cui principale effetto è quello di dividere le persone che premono alle porte della Fortezza Europa in meritevoli e meno meritevoli. I rifugiati possono restare – sorvoliamo, per motivi di spazio, sul percorso accidentato che li attenderà una volta “accolti” –, ma i migranti devono andarsene. In quest’ultimo caso i governi europei, supportati da un’assordante grancassa mediatica, ricorrono spesso all’etichetta assolutoria (per chi l’attribuisce) del “migrante economico”. Definizione ambigua assai cara alla classe politica di un intero continente perennemente restio a fare i conti sia col proprio passato, sia col presente. Mentre l’Europa utilizza il termine migrante per rispedire a casa chi fugge da fame e povertà l’emittente del Qatar al Jazeera ha recentemente deciso di non utilizzarlo più in quanto “disumanizzante”. Il dibattito è dunque vivo e sarebbe da ingenui negare le implicazioni a volte contraddittorie che può generare. Chi utilizza il termine “rifugiati” per i siriani che fuggono dalle violenze di Assad e dell’Isis è complice della Fortezza Europa che ne accoglie alcuni “buoni” a scapito degli altri “meno buoni”? È altrettanto evidente che l’etichetta prescelta esclude de facto chi va alla ricerca di un futuro migliore e ha la “sfortuna” di non lasciarsi dietro uno scenario di guerra. Un dibattito sulle parole giuste, o almeno più accurate, quando si parla di migranti e rifugiati è necessario e non più rinviabile. Soprattutto in un paese come il nostro dove il pressapochismo di alcuni giornalisti può alimentare o, peggio ancora, incoraggiare i peggiori istinti xenofobi.
Nei pressi della stazione Tiburtina, uno dei principali snodi ferroviari romani, è facile imbattersi in piccoli gruppi di migranti, perlopiù eritrei. In questi giorni senza sole ma assai afosi cercano riparo sotto gli alberi, accovacciati tra le macchine parcheggiate o sulle poche panchine disponibili. A chi offre loro una bottiglietta d’acqua o del cibo rispondono con un “thank you” comprensibilmente circospetto. Non serve una laurea in psicologia per riconoscere in quegli sguardi la diffidenza di chi è provato, non solo fisicamente, da un viaggio durissimo che non è ancora finito.
Per arrivare al centro di accoglienza Baobab, situato a poche centinaia di metri dalla stazione, percorriamo una via interna ed è lì che incontriamo E., un giovane eritreo sulla trentina arrivato da Taranto. La prima domanda che ci pone, in un ottimo inglese che farebbe arrossire il nostro premier, riguarda l’imponente dispiegamento di polizia che in questi giorni ha stretto a tenaglia lui e gli altri numerosi migranti. Al suo stupore corrisponde il nostro imbarazzo.
Proviamo a spiegargli che per molti politici e amministratori locali i flussi migratori sono una mera questione di ordine pubblico e, in alcuni casi, una remunerativa e criminale opportunità economica. Ma E. non ha intenzione di rimanere qui ancora a lungo. Si trova a Roma da quattro giorni e presto partirà alla volta di Ventimiglia dove, al prezzo di 60 euro un tassista gli farà oltrepassare il confine; potrà così raggiungere Parigi e da lì Amsterdam, sua destinazione finale.
Come molti altri migranti, E. ha trascorso le sue “notti romane” dormendo all’aperto e appoggiandosi di giorno al centro di accoglienza Baobab di via Cupa, una struttura al collasso da settimane che accoglie oltre 800 persone a fronte di una capienza ufficiale di 210 unità.
Ieri, 11 giugno, ricorreva un mese dallo sgombero dell’insediamento di Ponte Mammolo. Oggi tocca alla stazione Tiburtina salire agli “onori” della cronaca. La prossima tappa della via crucis inflitta ai migranti potrebbe essere, salvo un improbabile intervento risolutore del Comune, lo sgombero a fine giugno del centro d’accoglienza di via Scorticabove dove, per lo scadere del contratto d’affitto 120 tra rifugiati e richiedenti asilo rischiano di finire anch’essi sulla strada.